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MP3 Giorgio Sollazzi - Electric Giants

contemporary classical in the vein of Stockhausen Cage or Ives

10 MP3 Songs
CLASSICAL: Contemporary, CLASSICAL: Orchestral



Details:
My works deeply reflect the contemporanity, complexity and contradictions of our time. Being extremely sensitive to conquering multimedia, my art has undergone a clear cut and radical transformation over the years.

NOTE SULLO STUDIO DI UN NUOVO MODO DI PENSARE LA COMPOSIZIONE

Amleto, uomo più dio degli dei, ha, innanzi a se, nella loro "apparenza", il BENE e il MALE. Parlo di apparenza nel senso etimologico del termine: "ciò che appare, che si può vedere", che "sembra essere", nella sua manifestazione fenomenologica, quasi tangibile, nella sua "verità essenziale, incarnato, reso finito nella sua "infinitezza".
Questa "apparizione" è così "vera" (nel senso della verità assoluta) che egli non può neanche intravvederne un''altra "forma", quella trascendente e ciò lo "condanna", senza la minima possibilità di "preparare" una difesa: il suo accusatore è la metafisica stessa, così spietata da togliergli la terra sotto i piedi.
Non a caso, nelle scene finali, Amleto sembra mosso da una "lucida follia".
Il contatto con la metafisica porta oltre il senso comune, ne è l''antitesi per antonomasia.
Ciò, però non significa che il principe danese abbia a che scontrarsi con la divinità...non può, egli stesso è ordine cosmico, disordine entropico, "la tangente che porta al mistero" (J. Cortàzar).
E'' la mancanza di questa lotta a renderlo grande, ma uomo, dio ma "finito": egli, per "appropriarsi" dell''altro da se senza furto alcuno, gli appartiene, può guardare finalmente alla creazione con il necessario distacco, la domina! ma ne è egli stesso parte.
Poi, c''è Faust.
Egli non "sa" nel senso che Confucio dà a questa parola: non ha "sperimentato", quindi aperto il "vaso di Pandora", i cristiani sosterrebbero che si trova nel "Limbo" ma non per mancata redenzione dal peccato originale, ma per ignoranza, appunto, di quello che è bene e di quello che è male.
La sua posizione, perciò, è, solo all''inizio esattamente contraria a quella di Amleto ed, infine, "apparentemente".






Non è Mefisto che gli apre i "dolci abissi" del sapere o, meglio, dell''esserCi. No, è, anche qui, una "apparizione", il "dolce filtro" nella "fiala": la sua COSCIENZA intesa come "scoperta", quindi come "rottura", distruzione, immersione nel caos da e con cui si può "ricostruire".
E, d''ora innanzi, Amleto e Faust percorrono la stessa strada, si trovano, finalmente, nello stesso "mistero".
La storia, il plot, dopo l''ingresso di Mefisto, la conosciamo tutti e non è di questo che mi interessa parlare.
Mi preme porre l''accento come anche Faust si "riappropri" del suo. Certo, nel farlo causerà dolore, come Amleto, del resto, ma il cordoglio che "accompagnerà" questo dolore lo renderà più dio degli dei, uomo con gli altri uomini dei quali condividerà il "mondo".
La mia posizione nei confronti del "mondo sonoro" (quello che mi accosta, avvolge ­ uno dei tanti possibili -) è la stessa, dovrebbe essere la stessa, di Amleto e Faust ed allora non c''è nulla che non mi appartenga, nulla che mi sia estraneo e ciò che mi appartiene, appartiene a tutti, almeno, a tutti quelli che, anche inconsapevolmente, "stanno" dentro questo mondo sonoro (in qualche modo "sono" essi stessi il mondo sonoro di cui sopra ­ e da ora in poi con l''espressione "mondo sonoro" intenderò sempre questa "correlazione" -).
La "Quinta" o il saltarello li ho "scritti" io, il can-can o l''"Arte della fuga" sono mie composizioni, il "Requiem" o "Volare" sono frutto della mia fantasia musicale in tutto e per tutto e non solo dal punto di vista meramente acustico.






Io non esisterei se non avessi concepito il raga, o la Bohème o "Erwartung"; il mondo sonoro di cui fanno parte "Il flauto magico" o "Stranger in the night" è il mio mondo musicale, da me forgiato.
Questo a prescindere da ogni considerazione spazio-temporale, tanto più che queste "categorie" (e dico categorie e non dimensioni a proposito, poi dirò quale) la musica non le "utilizza" ma le "crea", ogni volta ex-novo.
Le mie composizioni, quelle che, per comodità, chiamerò "evocazioni", sono le "apparizioni" di "potenziali" infiniti nella loro mera finitezza.
Non musica senza tempo (questa volta inteso come Dimensione) ma musica che fa il tempo (come categoria).
Per sgombrare il campo da possibili, quanto perniciosi equivoci, per "categoria" intendo, assai poco kantianamente (figuriamoci poi quanto c''entri Hegel), il complesso di fenomeni, tutti tangibili, ma non per questo meramente "concreti", che realizzano, nel caso specifico, alla musica del mio mondo sonoro.
Ecco il proposito di cui poco sopra parlo: sto pensando in un modo totalmente nuovo il rapporto causa-effetto, nuovo per la musica, sia inteso, ché la scienza e la filosofia che l''accompagna (ebbene sì, la filosofia ora è ridotta "apparentemente" a far da ancella) già da tempo lo hanno acquisito.
In questo nuovo rapporto ciò che conta non è, come per la fisica Newtoniana, la direzione del vettore nella "dimensione" spazio-tempo ma la possibilità stessa (o l''impossibilità) che ci sia vettorialità.
Cioè a affermare che, nel complesso dei fenomeni, il rapporto causa-effetto è solo uno dei "potenziali" che può verificarsi o no, e, anche nel caso che occorri, avvenimento tutto da dimostrare, la direzione del vettore non è univoca, anzi è possibile che ci siano più vettori della stessa causa e più vettori dello stesso effetto.





Ad un certo punto la realizzazione pratica del mio nuovo pensiero (cioè la stesura "concreta" di una partitura) si presentò, paradossalmente, come una realtà in cui il "virtuale", nel senso proprio del termine (altri, in epoche passate, avrebbero detto "metafisica"), aveva il predominio, non solo "concettuale" ma anche fisico (e qui sta il paradosso) sul dato meramente acustico: ciò voleva dire non il silenzio (Cage definite dixit), o, in ogni caso, non propriamente, quanto una sorta di richiesta mnemonica e fisica all''esecutore che sfiorava (senza mai toccarla, però) la cosiddetta "Musica Essenziale". La strada era parzialmente giusta, infatti, ero riuscito a mettere, per il momento solo sulla carta, i due "fenomeni" musicali: il pensiero e l''azione, il concetto e la prassi, l''intelligenza e l''emotività.
A differenza di quanto accade quando ci si accinge ad eseguire un brano "classico", le mie "intenzioni" compositive non rimanevano al di fuori del fatto acustico ma ne facevano parte integrante. Perciò non si trattava di "Neomadrigalismi", come talvolta mi è stato dato di pensare, ma iniziava il tentativo di "gnosi" del suono di là dal fatto meramente acustico.
Rimanevano però molte perplessità. Prima fra tutte, l''eccessiva fiducia nello "scritto" intendendo con ciò il tipico "peccato" della cultura occidentale che, tutta preoccupata di comunicare "informazioni" (anche in senso lato), assolutizza lo "scriptum", trascurando ciò che non lo è.
Prova ne sia la spietata fagocitazione delle forme orali di cultura le quali sono state metabolizzate e perciò distrutte, almeno nella loro parte "vitale" (non voglio dilungarmi oltre su di quest''argomento che pertiene all''etnologia).







L''altro aspetto che mi preoccupava era che tutto ciò che apparteneva alla sfera delle "intenzioni" compositive, rimaneva come "lignificato", faceva parte, in ultima analisi, di un mondo sonoro interamente mio, come se esso (mondo sonoro) fosse l''unico degli universi possibili.
Peccato capitale ove si pensi alle premesse. Non valeva, allora, l''esser riuscito ad inglobare nell''opera senso e "significato" (sono cosciente del fatto che questi termini possono essere facilmente mal interpretati da chiunque si occupi di semiotica ma, per un momento, si dimentichi Saussure e si ridia alle due parole la loro valenza comunicativa originaria).
Tra l''altro questa operazione è stata tentata, con disomogenei risultati, da altri compositori e ha dimostrato tutta la sua sterilità.
Dovevo, quindi, uscire dal mio mondo (Faust) ed abbandonare la logica grafo-centrista (mi si perdoni questo brutto neologismo, per ora necessario).
La soluzione di questo problema nacque dalla meditazione sulla storia d''Amleto: l''apparizione dello spettro, oltre che funzionale alla logica della tragedia, suppone un altro mondo (teniamo da parte la "metafisica", esso è un simbolo, il simbolo della "tangente che conduce al mistero") con un''altra logica, una logica "polidimensionale".
Per questo immaginai di proporre allo strumentista un mondo sonoro, nel senso sopra definito, con il quale interagire "passando" per il proprio mondo sonoro.
Il musicista cioè improvvisava su un brano che poteva ascoltare in cuffia (per non essere distratto da eventuali suoni "esterni").
"Potenzialmente" i due mondi tendono ad intricarsi, ad intrecciarsi l''uno nell''altro, creando l''"Evocazione" di un "Terzo "Sonoro" (devo questa definizione al filosofo e grande strumentista Mario Caroli) la cui "fisicità" è incontrovertibile, come, del resto, la sua provenienza da "altre sfere" della conoscenza, anche inconsce.





Grazie ad Andrea Ceccomori (flautista) ho potuto sperimentare la risposta ai "potenziali" che, nel caso specifico erano: un brano di Boulez (tratto da Explosante ­ fixe), l''Allegro finale della VI Sinfonia di Beethoven (le prime 62 battute), un saltarello del 1200 suonato con strumenti d''epoca, l''Adagio dal Concerto per cl. e orchestra di Mozart (i primi due minuti ca.), suoni registrati in una strada di Roma (voci, traffico) ed altri.
L''analisi approfondita delle "risposte" del flautista a questi "Potenziali" e il loro confronto con altre "Evocazioni" di Guido Arbonelli (Clarinetto), di Francesco Dillon (Cello) di Ettore Maria Del Romano (Clavicembalo ed Organo) e di Stefano Ciccone (Attore) mi convinsero della bontà della strada che avevo intrapreso.
Cosa accadeva in realtà, cosa avevo potuto osservare?
La prima e stupefacente "osservazione" consisteva nel sentire la modificazione "timbrica" (ottenuta, e qui è la sorpresa, utilizzando i modi d''esecuzione "tradizionali") che subivano gli strumenti: era come se l''esecutore, d''improvviso, comprendesse in modo più significativo, il "suono" emesso dal proprio strumento e ne riuscisse a cavare un risultato più ricco (era il "Terzo sonoro" di cui parlo sopra).
Non era tanto una questione d''intonazione o d''espressività ma proprio di "gnosi" del suono che, finalmente, prendeva corpo nella sua "fisicità".
Un''altra "sorpresa" fu la quantità enorme di suoni "extra", vale a dire quelli ottenuti con diteggiature, modi d''attacco diversi da quelli "accademici", trovati con una facilità d''esecuzione disarmante.
Chiesi agli strumentisti se avevano "premeditato" questa ricerca, e la risposta fu unanime: nessuno l''aveva fatto e, quasi tutti, non ricordavano neanche più il modo in cui li avevano ottenuti.






Non voglio approfondire in questa sede le ragioni di ciò, me ne occuperò in un prossimo saggio, qui mi preme darne notizia in senso puramente "fenomenologico".
Ma, ancora.
Ad un ascolto più approfondito degli "esperimenti" sui potenziali risaltava in modo perspicuo, che al fondo d''ogni "evocazione" c''era stata un''analisi, anche molto profonda, del brano musicale che in quel momento fungeva da potenziale.
Ovviamente il grado di analisi era variabile e dipendeva vuoi dalla "cultura" dello strumentista vuoi dalle caratteristiche del potenziale stesso, ma non si creda che a potenziale semplice sia corrisposta un''analisi più agevole e quindi più "profonda": talvolta è accaduto il contrario.
Molto indicativo, a tal proposito, è stato il brano tratto da Explosante-fixe. In esso sono presenti momenti molto propulsivi con ritmi asimmetrici ma ben scanditi ed altre zone in cui il fattore "armonico", quasi fascia sonora, è predominante e tutto ciò nel volger di pochi secondi.
Ricordo, per inciso, che di quest''opera di Boulez, a parte considerazioni sulla spazialità inglobata come parametro di cui tener conto compositivamente ed altre novità tecniche, si parlò di influenze stravinskiane, da un lato e di ripensamento del fattore armonico attraverso Debussy dall''altro. Bene, l''improvvisazione (l''evocazione) di Ceccomori, rispecchiava in pieno quelle annotazioni critiche con una "puntualità" da meravigliare anche il più prevenuto "analista".
In breve, l''esecutore aveva colto, e reso "fenomeno" sonoro questi aspetti che se sono i più evidenti (apparentemente) sono anche quelli meno "espressivi" ma più tecnici.









Certamente questo è dovuto al fatto che lo strumentista in questione è certamente tra i più sensibili ed intelligenti ma alla mia domanda esplicita, se in pratica, conoscesse queste posizioni critiche sul brano, egli rispose non solo che non aveva sentito parlare in questi termini della composizione ma che, addirittura, non aveva mai ascoltato il frammento da me proposto (cosa che non dice della sua "ignoranza" ché Boulez ha approntato talmente tante versioni di quell''opera che sfido chiunque a ricordarne in modo "significativo" anche un solo passaggio).
Entusiasmante fu anche l''esperienza con l''attore.
La sua recitazione diventava così fluida e "funzionale" che, nel riascoltarsi, non si riconosceva o, meglio, sentiva le sue caratteristiche peculiari esaltate: anche la voce, in modo similare al timbro per gli strumentisti, aveva subito un "arricchimento" che meravigliosamente si rifletteva sulla "chiarezza" espressiva. Queste esperienze sono state fondamentali per l''elaborazione del mio nuovo modo di pensare la composizione.
Avevo, in qualche modo, avviato la soluzione dei problemi che più sopra ho esposto.
Si sollevavano però tutta una serie di domande a catena, come una reazione termonucleare, le cui risposte saranno oggetto di uno specifico studio.
Ora, mi preme annunciare che mancava solo un passo, fondamentale. Accenno soltanto una "questio" che mi ha dato molto da pensare poiché investe la necessità stessa della composizione.
Questo non da un punto di vista "personale", "privato" ma epistemologico e perfino sociologico.
Perché non dirigere le proprie energie creative esclusivamente nel proporre i "potenziali"?






Perché non tramutarsi da compositore in una figura forse più ampia e cioè quella del "costruttore" (da notare quanto di "sacro" ci sia in questa parola, assai più di quanto si pensi)?
Mi spiego meglio.
La tentazione di "comporre" le "evocazioni" fu grande ma questo avrebbe significato impastoiarsi in una sorta di metafisica al quadrato, cosa per me inaccettabile da qualsiasi punto di vista. Inoltre, questa possibilità avrebbe finito per somigliare molto a quelle esperienze compiute negli anni 60-70 che ingenerarono confusione e che nascevano da un''aporia critica: tutti possiamo essere compositori. La storia ci ha mostrato quanto sterili fossero tali posizioni anche se, ormai trascorso il secondo millennio, si può sostenere che furono una sorta di purgatorio attraverso il quale si doveva pur passare.
Ad ogni modo la mia decisione fu di abbandonare quell''idea a favore di altro.
Intanto l''improvvisazione.
Essa pone diversi problemi, tutti ormai posti al vaglio della critica ed in qualche modo risolti e perciò non mi dilungherò.
Si trattava di "bilanciare" la risposta "libera" ai potenziali con una "guida" che rendesse, nello stesso tempo, giustizia alla fantasia dello strumentista e del compositore e che, perciò, fosse più feconda d''implicazioni.
Qui entra in gioco la "scrittura" che da gabbia, nel senso inteso sopra, divenisse una possibilità fra le tante e tutta da giustificare sia compositivamente sia epistemologicamente (si ricordino i vettori del rapporto causa/effetto di cui ho già detto).





Essa scrittura può assumere diverse e contrastanti funzioni:
1- semplice segnale di unitarietà tra i vari momenti del brano;
2­ fenomeno esplicativo (non didascalico) della morfologia;
3- ulteriore "potenziale";
4- "potenziale" con diversa forma, in senso fenomenico, tale da esaltare il "potenziale" vero e proprio;
5- contrapposizione al "potenziale" e, quindi, secondo polo dialettico della sintesi sonora.
Perciò, lo "scriptum", diventa malleabile ma rigoroso, maestro e compagno di viaggio, portavoce di emozione e intelletto.

D''altro canto il "potenziale" può rivestire i seguenti "ruoli":

1- sostegno agogico, non come metronomo ma come direttore invisibile con la sua individualità e personalità, di quanto scritto in partitura;
2- regolatore d''intensità, nel senso che l''esecutore "filtra" la partitura attraverso la dinamica della musica che ascolta in cuffia;
3- suggeritore ritmico rispetto alle durate (le figure musicali) e, in senso più ampio, al fraseggio;
4- aiuto nella ricerca di nuove soluzioni timbriche, nuovi modi di emissione del suono (allora, in cuffia, ci saranno strutture particolari che spingono l''esecutore in questo senso);
5- creazione di una nuova entità sonora estrapolando, per esempio, da musiche preesistenti strutture che diventano "originali" ma che, comunque, sono avvertite dal pubblico come una "illuminazione" (un po'' come quando si fa ruotare un diamante che è sempre lo stesso ma è anche sempre diverso secondo la sfaccettatura che mostra).







Altre funzioni sono molto più complesse e le accenno soltanto: confronto o contrapposizione, osmosi, silenzio non silenzioso ecc.
Risulta, da quanto detto, che il mio lavoro si sviluppa su due fronti: composizione dei "potenziali" e composizione dello "scriptum".
Tutto ciò è assolutamente lontano tanto dalla parodia (sia pure in senso secentesco), che dal collage, che dalla citazione; al contrario, si tratta di riappropriarsi di tutto un "mondo sonoro", nel senso sopra detto, alla ricerca della verità, con le mani affondate nella realtà.
E'' per questo che l''ascoltatore si può definire parte attiva, sì, anche l''ascoltatore generico, perché tutti possediamo un patrimonio di conoscenze musicali che riaffiorano dall''inconscio (o non riaffiorano, ma questa è un''altra questione).
Per concludere accennerei alla possibilità di utilizzare elaborazioni elettroacustiche dal vivo come partner sonoro dello strumentista. Qui, però, le implicazioni teoriche e pratiche aumentano "esponenzialmente" e, perciò, mi ritraggo ripromettendomi di soffermarmi su questa ulteriore combinazione di "potenziali" in altra sede.




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